domenica 16 novembre 2014

GOLDEN MILE - IL RESOCONTO

Io conosco bene Edoardo. So quando ha voglia di fare le cose, quando non ne ha voglia, quando ti dice di si ma in realtà preferirebbe di no.
So cosa scriverà a proposito di questi giorni a Londra, e sono anche abbastanza sicuro su come il suo post sarà strutturato.
Lo so perché ha preso appunti e foto durante tutta la nostra avventura, complice una straordinaria resistenza all'alcool.
So che la sua sarà una cronaca.
Lascio quindi a lui il racconto e le foto, un po' perché è sempre stato immensamente più bravo di me a scrivere, un po' perché io dopo la decima pinta ho il buio.
Leggende narrano che lui, invece, non solo termina il Golden Mile con successo, ma si beve l'ultima pinta di Francesco, torna a casa, si mangia della pasta e si beve un'altra birra, così, a sfregio.
Edoardo ha un particolare potere mutante: ogni liquido alcolico che entra nella sua bocca viene immediatamente teletrasportato in un boschetto al confine con il Molise, impedendo così alla bevanda di intaccare il corpo.

A parte gli scherzi, io il Golden Mile non l'ho finito, non ce l'ho fatta. Sono poco allenato e non ho sangue vichingo nelle vene. Non bevo mai, praticamente. Ed eravamo a stomaco vuoto. E, nonostante ritengo che dieci pinte siano un ottimo traguardo, dovetti abbandonare i miei amici prima del tempo.
Uno dei miei ultimi ricordi è il volto di Edo, sorridente, che nella penombra dello Spouters Corner mi dice "Lascia, Mattia. Non importa, non è importante".

E aveva ragione. Non lo era.



Il logoro e sporco pezzo di carta raffigurato nella foto sarà per sempre il ricordo di un'audace impresa, l'avventura di quattro amici che hanno fatto qualcosa di grandioso. Non un traguardo mancato. Non solo, almeno.
Un viaggio. Un'avventura, in un tempo ormai avido di cavalieri, draghi e fanciulle.
Quattro ragazzi che hanno sfidato la notte a colpi di birra, di risate e prese per il culo.
Me ne resi conto davanti al The Gate, mentre buttai l'occhi alle stelle, lassù. Lo sguardo mi si sfocava per via di quella che era la nona pinta, oramai.
"Dio quanto sono felice", bisbigliai fra me e me.
E di questo volevo ringraziare, i miei splendidi, meravigliosi amici.
Di avermi regalato l'unica cosa che l'uomo sta rincorrendo dall'alba dei tempi: la felicità.
Grazie a Ludovico, perché è l'uomo che mi fa più ridere sulla faccia della Terra. E il fratello che non ho mai avuto.
Grazie a Francesco, perché ci sopporta e perché so di poter sempre contare su di lui.
Grazie a Edoardo, perché è mio alleato, mio compagno, mio capitano.

Grazie ai miei amici, invincibili e immortali.

La notte, quando Pesca ci mise tutti a letto, aprii gli occhi devastato dal mal di testa. Ludovico vomitava in una bacinella. Edoardo russava. Francesco, nel buio, chiamava il nome di Ludovico per assicurarsi che fosse a posto.
Mi sentivo in una nave, in un castello, in una botte di ferro.
E avventato, e fortunato, e santo.

Mi sentivo in famiglia. Mi sentivo fra amici. Fra amici veri.

E, prima di piombare nel buio del sonno, sussurrai di nuovo fra me e me:

Dio quanto sono felice. 



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